Tassonomia delle Cipree

Tutti gli autori che ne hanno fatto oggetto di studi, a cominciare da Linneo del Sistema Naturae, fino ai più accreditati “contemporanei” (da Burgess del "The Living Cowries", ai coniugi Schilder del "A Catalogue of Living and Fossil Cowries" a Meyer delle recentissime indagini genetiche) concordano nell’attribuire alle “vere” cipree lo status di famiglia sensu striato (Cypraeidae), cioè di raggruppamento (auspicabilmente monofiletico di specie a forte affinità reciproca, sufficientemente caratterizzato e ben distinguibile, sulla base di caratteri anatomo-morfologici (soprattutto della radula), conchigliari ed eco-etologici, rispetto ad altri gruppi “a colpo d’occhio” simili, quali le famiglie Ovulidae e Triviidae (che nel mondo anglosassone, non a caso, sono dette “al lied cowries”). Per le cipree, dunque, la famiglia è il più ampio dei “contenitori tassonomici”; all’estremo opposto, al livello gerarchicamente più basso, si situa la specie, che è il più naturale dei taxon realmente esistenti (indipendente dalle “architetture” di chi ha costruito l’impianto sistematico) e, secondo l’universalmente accreditata definizione biologia, consiste in un insieme di popolazioni e/o individui che rappresentino al contempo un’unità riproduttiva (siano cioè interfecondi ed in grado di generare prole fertile), un’unità eco-etologica (interagiscano tra loro, con altre specie e con l’ambiente secondo modalità ben definite, come si dice “specifiche”, e tendenzialmente costanti), ed un’unità genetica (ovvero condividano un’elevatissima percentuale del patrimonio genetico, costituendo quindi una sorta di grande “serbatoio di geni” liberamente interscambiabili).

 

Se nell’ottica più riduttivamente conchiologica del Settecento si sarebbero potute ipotizzare molte centinaia di specie di cipree, l’approccio morfologico-anatomico (e poi comportamentale) degli ultimi due secoli ha circoscritto il numero al di sotto delle 250, e l’attuale analisi genetica (ovunque riconosciuta come l’approccio più oggettivo alla specie) ha riconosciuto l’esistenza e la “bontà” sistematica di oltre 210 specie di Cipreidi.

Al di sotto della famiglia ed al di sopra della specie si collocano categorie tassonomiche maggiormente soggette ad oscillazioni a seconda degli autori e delle tendenze (ci sono i fautori del lumping, cioè dell’accoppiamento, e quelli dello splitting, ossia della divisione in sottounità…): anche per i Cipreidi, come per molte altre famiglie di Molluschi, è stata proposta la divisione in sottofamiglie (connotate dal suffisso –inae) o in tribù (suffisso –iui), ad indicare l’esistenza di gruppi ancor più rigorosamente monofiletici di specie caratterizzate da affinità e parentele particolarmente strette ed evidenti.

 

Inoltre, le varie specie sono alternativamente state ricondotte ad unico genere (Cypraea) da chi, come Burges intendeva evidentemente enfatizzare la grossa uniformità ed unitarietà di fondo di tutte le cipree, oppure ascritte a diversi generi (oltre 40, sia dai coniugi Schilder che da Lorenz e Hubert) da coloro i quali individuano, tra ulteriori sottogruppi di specie, comunioni di percorsi filogenetici recenti e relazioni parentali ancor più stringenti (che nel caso dell’appartenenza allo stesso genere ammetterebbero anche l’eventualità di dare origine ad ibridi sterili). Nell’ambito di una stessa specie sono state infine molte volte individuate delle “sottounità”, caratterizzate, al loro interno, da un’ancor maggiore costanza e consistenza di aspetto: in alcuni casi si è trattato di segmenti o popolazioni realmente accomunate da caratteristiche a forte supporto genetico che le distinguono dalla popolazione “tipica”, e spazialmente definite da fenomeni di isolamento geografico o separazione di nicchia ecologica, ed in questo caso si ha a che fare con “vere” sottospecie, che lo screening genetico di solito conferma e possono rappresentare il preludio a nuove specie future.

 

In altri, numerosi contesti si è in presenza di morfotipi, ovvero di insiemi di individui con caratteri spesso realmente simili, ma poco o per nulla supportate geneticamente, in genere semplice conseguenza di condizionanti ambientali quali la dieta (che può indurre differenze nella colorazione o nella taglia) o la maggiore o minore asprezza o dinamicità degli ambienti frequentati (che possono influenzare la struttura o lo spessore dei nicchi); i morfotipi vanno considerati come forme o varietà, cioè espressioni di variabilità di tipo piuttosto aleatorio, spesso incostante, ed un approccio scientifico nega loro qualsiasi significato o valenza tassonomica.

 

Nel collezionismo e sul mercato degli esemplari si è assistito ad un loro grosso “successo” ed all’uso smodato di una nomenclatura trinomia in cui al nome scientifico della specie veniva affiancato quello della forma o varietà, elevandolo più o meno consapevolmente e intenzionalmente ad una dignità simil-sottospecifica: senza dubbio rispondenti ed efficaci al fine di indicare sinteticamente tipologie di esemplari, queste soluzioni nomenclaturali vanno comunque considerate per quello che sono, ovvero convenzioni per intendersi, irrilevanti a livello sistematico. Le specie presenti in questa guida (e le relative relazioni) si allineano fondamentalmente con quella che è la più recente “griglia sistematica” proposta e rivista da Meyer nei suoi lavori del 2003 e 2004, risultanti da analisi genetiche condotte comparando le sequenze di due geni del DNA mitocondriale tipicamente oggetto di studi di sistematica molecolare. Meyer ha sottoposto ad indagine materiali biologici provenienti da oltre il 90% delle specie “classicamente” riconosciute e presenti nelle precedenti trattazioni su base anatomo-morfologica, ricavando quasi 300 unità tassonomiche operative, OTU o operational taxonomic units, corrispondenti a gruppi di individui fortemente connotati in termini geografici (in condizioni di reciproca allopatria o segregazione ambientale), genetici (con distanza genetica da sister groups) o tassonomici (già precedentemente descritti come sottospecie), e verificando con metodologie di analisi filogenetica il loro valore come unità di significato evolutivo, ESU o evolutionarily significant units.

 

Semplificando e banalizzando il panorama che ne è scaturito, si può dire che a grandi linee, trova ampie conferme la sistematica proposta dagli Schilder, con qualche nuovo genere proposto ed un paio di generi che vengono “risorti”. Complessivamente Meyer suggerisce l’esistenza di 46 generi di Cipreidi, accorpabili in una decina di raggruppamenti che testimoniano maggiore affinità evolutive al loro interno e che risultano ampiamente sovrapponibili a sottofamiglie o tribù già indicate nel testo dei due coniugi; dalla “compartimentazione” rimarrebbero esclusi solo tre generi, il cui precoce distacco evolutivo li rende “paralleli” a tutti gli altri.

 

In termini evoluzionistici Meyer ribadisce come le cipree siano un gruppo zoologico il cui percorso evolutivo si è giocato principalmente nella fascia intertropicale in stretta associazione con quello delle barriere coralline. L’Oceano Indiano ed il Pacifico Occidentale rappresenterebbero il centro di speciazione dei Cipreidi, altre aree tra i Tropici sarebbero state colonizzate in seguito ed ospitano ora faune cipreologiche relativamente “relitte”. La capacità di dispersione, funzione della durata della fase larvale planctonica (inversamente proporzionale, in un certo senso, alla produttività oceanica), si risolve in areali più ampi, in una più manifesta “staticità” o persistenza morfologica dei caratteri e, nell’insieme, in una maggior “resistenza all’estinzione” (minor turn-over evolutivo) delle specie “lungamente” planctoniche.

La brevità o addirittura l’abolizione dello stadio larvale flottante che si associa alle condizioni temperate ricche di fitoplancton o alle regioni di upwelling di acque fredde e ricche, ha portato e porta tuttora, invece, ad una più marcata localizzazione geografica, con alta velocità di speciazione in seguito a processi microadattativi favoriti dallo scarso scambio genetico, ma si accompagna, inevitabilmente, anche ad una tendenza al più rapido avvicendamento evolutivo, e quindi ad una maggiore vulnerabilità all’estinzione. E non è un caso, di fatto, che la quasi totalità di nuove specie di recente individuate provengano proprio da quelle regioni “di frontiera” nelle quali l’adattamento a condizioni ecologiche spesso “puntiformi” o circoscritte (e in genere severe) implica, in mancanza di una fase larvale flottante (ovvero di una facile “via di fuga” al nuovo ambiente), ed in condizione di improbabile rimescolamento genico, una forte e continua selezione di caratteri marcatamente adattativi, necessari ed inevitabili per sopravvivere.


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